Vecchi sogni

Entro in una enorme stanza, con i soffitti altissimi, dieci, forse quindici metri. Una stanza arredata con divani, poltrone, tavolini. Il soffitto è vetrato, o comunque lascia filtrare la luce. Alle pareti, qua e là, maggiormente concentrate sulle pareti alla mia destra, fino quasi al soffitto, scaffali e librerie piene di libri. Alcune scale consentono di arrivare ai livelli più alti delle librerie. Sono scale diverse l’una dall’altra. Alcune a chiocciola, altre ad andamento lineare e spezzato, con una sorta di pianerottoli di tanto in tanto. Sono scale di legno. Mi guardo intorno, affascinato e stupito. Vedo che una delle scale corre tra due ali di poltrone d’acciaio e pelle, come quelle di Breuer all’epoca del Bauhaus.

Salgo qualche gradino, forse, ma non ricordo bene. Più probabilmente continuo a camminare lungo la stanza. C’è un uomo, seduto su un divano. Un uomo grasso, un po’ anziano, con l’aria viscida e untuosa. Mi parla, illustrando e magnificando le virtù della stanza. Ma lo fa con un tono mellifluo, insinuante. Avverto chiaramente secondi fini, nella sua voce, nelle sue parole, significati e obiettivi che non appartengono alle parole. Mi vuole irretire. Sono all’erta. Sorrido, annuisco, ma non offro confidenza.

C’è anche un bambino. Non so da dove sia venuto. Corre su e giù per le scale, canticchiando, ma lo fa quasi con timore, quasi temesse le reazioni dell’uomo grasso. Non ha l’aria di esserne il figlio. L’uomo grasso lo guarda con viscida severità, ma c’è dell’altro, lo vedo, nei suoi occhi. Come qualcosa da nascondere. L’uomo grasso teme qualcosa. Che il bambino parli troppo, che si comporti come non dovrebbe, di fronte a estranei.

Qualcuno mi chiama, devo partire. La macchina mi aspetta. C’è il mio vecchio capo, in macchina e una collega. Dobbiamo andare a presentare un progetto ad una Giunta comunale. Salgo in macchina, pronto a partire. Siamo in campagna, la strada è sterrata. Mi sono dimenticato una cosa dico. Scendo per tornare a riprenderla. Devo averla lasciata nella grande stanza con i soffitti alti. Torno indietro, quindi, ma non risalgo più in macchina. Mi siedo per terra, vicino ad un tavolino, su un tappeto.

Sento qualcosa in gola, qualcosa che mi dà noia. Deglutisco, ma non se ne va. Inserisco le dita in bocca, verso la gola, per capire cosa si è fermato a mezza via e mi infastidisce. Sento dei peli, capelli, forse. Li afferro con le dita e tiro. Ciuffi di capelli mi escono dalla bocca. Ciocche di capelli scuri, non lunghissime, come quelle che cadono a terra dal barbiere. Li poso a terra, ma ne sento altri, in gola. Continuo ad estrarre con le dita ciocche umide dalla gola, senza riuscire mai a liberarmene completamente. I capelli si accumulano sul tappeto, bagnati.

L’uomo grasso mi guarda e non commenta. Il bambino è sulle scale, seduto su un gradino. Non sorride. Ha l’aria triste.

Mi sveglio. Ho sete. Bevo, respiro. Guardo l’ora. Le sette e dieci. Ancora un’oretta e mi alzo, penso. Ma il sonno non è più arrivato.