Spesso, e da tempo, penso che sarebbe bello scrivere un libro di cucina, pieno di tutte le ricette dei piatti che, praticamente quotidianamente, da ormai più di tre decenni (!) preparo e propino a me stesso e a chi vive o ha vissuto con me. E mi rendo conto che la mia cucina è fatta di tradizione, di saperi studiati dai libri di cucina (che riempiono parecchi scaffali), di grandi classici, ma soprattutto di un sapere profondo e sedimentato, ormai, dentro la mia mente, nelle mie mani, nel naso, sulla lingua e nell’istinto.
Non cucino quasi mai le stesse cose. O meglio, sì, ma fatte sempre in modo un po’ diverso. Non cucino mai “ricette”, ma piatti, pietanze, costruiti con ciò che ho a disposizione, con ciò che c’è in dispensa, in frigo. Un sacco di piatti ho smesso di farli da tempo e non li ricordo nemmeno più. Altri li ho fatti una volta sola, anche se erano buonissimi e mi sono segnato la ricetta. Rifarli mi sembra noioso. Anche quando faccio la spesa, ormai, non compro in ragione dei piatti, ma in base al gusto, alle voglie, alla qualità, alla stagione. Poi, dopo, a casa, si vedrà.
Quindi ho parecchie difficoltà ad immaginare un libro di ricette costruito in modo tradizionale. Ce ne sono di bellissimi e completissimi. Che sarà mai aggiungere qualche ricetta in più. Invece dovrebbe essere un libro di cucina. Un libro che insegni o, se si vuole, racconti, come si cucina bene. Come si trattano gli ingredienti, le verdure, la carne, il pesce, le spezie, le uova, come si abbinano. Ma non perché esistano abbinamenti giusti o sbagliati. Ciò che va raccontato è come si impara ad abbinare le cose. Come “sentire” gli ingredienti. Imparare a costruire quel processo mentale che, lentamente, quasi da solo, definisce i contenuti di una ricetta, i suoi confini, le tappe, i sapori, i colori, le consistenze, le cotture. Una definizione che si basa sul l’esperienza, sui ricordi, sulla golosità, la fame, la voglia di cose buone, la curiosità di sperimentare di assaporare, di conoscere, di chiedere, di provare.
Allora più che ricette viene da parlare di pensieri che si fanno pietanza, cibo. DonPasta mi ha chiesto di dargli una ricetta per il suo progetto Artusi remix. E, pensa pensa, mi sono reso conto, che nulla di ciò che mangio e cucino deriva dal sapere antico e naturale delle mie radici. Forse perché le mie radici sono varie e sparpagliate. Forse perché la mia mamma non era una casalinga vecchio stampo. Forse perché ho cominciato a fare da mangiare a undici o dodici anni proprio perché la mia mamma era in giro per riunioni del PCI. Mi sono creato una cucina tutta mia, totalmente inventata, all’inizio. E in fondo è quello che continuo a fare anche oggi. Poi ho studiato, certo, comprato libri, assaggiato con attenzione e passione. Poi ho rubato, chiesto, imparato: segreti, tecniche, saggezza. Da tutte le regioni ed i posti dove sono riuscito a mangiare e a carpire mezze frasi da mamme, nonne e maghe della cucina familiare e locale. Quelle che sembrano raccontarti la verità, ma non ti dicono mai tutto veramente. Innestando tutto questo con le cose lette e studiate.
Mi sono liberato dalle dosi, in questi anni. Non le vedo più, non ne tengo conto. Non sono mica un pasticcere, d’altronde. E allora mi ritrovo punto e a capo. Che ricetta scrivo per DonPasta? Un bel problema. E alla fine mi viene in mente un sapore di quando ero bambino. Un sapore buono. Che ancora oggi, a volte, ricerco e ricreo. Le tagliatelle con burro e formaggio. Che detta così sembra una stupidaggine. Ma che razza di ricetta è? La chiamavano la “pasta dei cornuti”, la pasta al burro, perché ci vuole poco a farla ed il resto del tempo, le donne, potevano dedicarlo a spassarsela con l’amante. E invece è una cosa buonissima. La mia mamma (che, come si è visto, non se la spassava con l’amante, ma con il comunismo, e aveva poco tempo comunque) usava le tagliatelle comprate. Ma non la pasta fresca, quelle secche, forse Buitoni o Barilla, non ricordo. Ma il formaggio (chiamato genericamente formaggio, ma intendendo Parmigiano Reggiano) era buono, invece, che la mia mamma era di Parma e non si accontentava del Grana Padano, con tutto il rispetto. Io mi ci sono impegnato, poi, e ho imparato a fare le tagliatelle a mano, che mi piacevano di più. Imparando a farle da alcuni amici di Cattolica. Per quanto riguarda il burro, a Gorizia, dove vivevamo, c’era del burro molto buono, burro di Zona Franca, che costava meno ed era di provenienza tedesca, se non ricordo male, o austriaca. Un bel burro saporito e grassoccio.
Ingredienti
Ma veniamo alle tagliatelle. Pasta all’uovo, naturalmente. Farina, uova e sale. Circa un uovo ogni 100 grammi di farina. Dico circa perché bisogna un po’ capire. La dimensione delle uova, conta. L’umidità anche. Va ponderato. Ma diciamo che, più o meno, quello è il riferimento che io tengo. Per una pasta bella gialla, saporita e consistente. Quanto sale? Q.B. Occorre aggiungere altro?
Preparazione
Ma veniamo, alla fine, alla preparazione del piatto. La pasta. Farina e uova e sale, si diceva. Quelli bravi versano la farina sulla spianatoia di legno, in un montarozzo, ci fanno il buco in mezzo e ci rompono le uova dentro. Poi, con una forchetta, si comincia a mescolare ed amalgamare la farina con le uova. Dico quelli bravi perché c’è sempre il rischio che gli argini di farina cedano e la chiara d’uovo tracimi e si sparga sulla spianatoia. Una cosa orribile.
L’alternativa onorevole è mescolare gli ingredienti in una ciotola e riversare tutto sulla spianatoia solo in un secondo momento, a massa già formata. Impastare, impastare ed impastare. Forza di braccia e pazienza. È il momento in cui la mente si assenta, ma solo parzialmente. Le braccia lavorano e la mente controlla, ma nel frattempo pregusta la cremosità del burro, l’aroma del formaggio grattugiato. Impastare, impastare ed impastare. Dieci minuti ci stanno tutti. Ma un po’ di più non fa male affatto. Poi la pasta riposa un po’, e anche le braccia. Un’altra decina di minuti. Ma anche quindici. Dentro un canovaccio pulito, di tradizione. Ma va bene anche la pellicola, non è un reato.
Nel frattempo si può mettere l’acqua a bollire, ad esempio. O grattugiare il formaggio. Rigorosamente a mano. Qui la grattugia elettrica è reato, invece. Il formaggio deve essere a grana non troppo sottile. E poi bisogna stendere la sfoglia (come la chiamano a Bologna). Con il mattarello. Rigorosamente di legno. Di quelli lunghi e sottili, non quei mattarelli dei fumetti con le due impugnature innestate in un cilindro corto e tozzo con cui le massaie corrono dietro ai mariti. E si comincia a stendere la pasta. In quantità compatibile con lo spazio a disposizione e la abilità di ciascuno. Fino a due uova si riesce a fare in una tirata sola. Da tre uova in su forse conviene smezzare l’impasto in due tirate successive. Comunque sia, si comincia a lavorar di braccia, mani e spalle. Infarinando quando necessario, per evitare che la pasta si attacchi al mattarello, alla spianatoia e a se stessa. Tirare, tirare, tirare. Fino a che la sfoglia sia sottile, leggera, che questa non è una fettuccina romana, è una tagliatella emiliana. Tirare la sfoglia è bello, dà soddisfazione. Cercare di mantenere la forma rotonda della sfoglia, la sua bella regolarità. Arrotolarla attorno al mattarello per sfruttare meglio lo spazio, per girarla, sia sopra – sotto, sia di novanta gradi. E tirarla arrotolata attorno al mattarello, godendo della magia della sfoglia che ormai ha una consistenza perfetta, non si attacca più a niente, ma non è secca nemmeno un po’.
Quando lo spessore è a punto, si tratta di tagliare. Certo, ci sono le macchinette, quelle con la manovella. Ma a mano è molto più bello. Si arrotoli la sfoglia attorno al mattarello, per l’ultima volta. Poi la si sfili sulla spianatoia. E con un coltello affilato si comincia a tagliare trasversalmente questo rotolo di sfoglia sottile. Con passo regolare, più di mezzo centimetro, meno di un centimetro. Diciamo 7 mm, va’. E si staccano le striscioline di pasta, si sparpagliano, si infarinano ancora un po’. La massa di pasta è diventato cibo, ha una forma, è diventata riconoscibile. Ha assunto un nome. Tagliatelle.
È giunto il momento di sciogliere il burro. Dentro un pentolino a fuoco dolcissimo. Non stiamo parlando di friggere, ma di fondere. Tanto burro. Senza paura di esagerare. Che le tagliatelle assorbono da matti. Caso mai avanza. Lo si mangia in fondo al piatto con il parmigiano rimasto. A questo punto l’acqua starà bollendo, ci si mette il sale, come sempre. E si buttano le tagliatelle. Fuoco alto, ma occhio attento. Loro cuociono subito, ma vogliono bollore. E sulle prime il bollore muore. Allora coperchio. Ma occhio, è un attimo che la schiuma strabocchi dalla pentola. Quando vengono a galla sono cotte. E qui si deve essere veloci. Scolare, ma pronti a conservare un po’ l’acqua di cottura. E non scolare troppo. Ma nemmeno troppo poco. Come tutte le paste senza sugo di pomodoro, il confine tra lo stato “liquido sciacquettoso” e quello “asciutto mappazza” è estremamente sottile. Soprattutto quando c’è il formaggio (ne sa qualcosa chi ha mai provato a fare una cacio e pepe, notoriamente la pasta più difficile al mondo). E tutto va nella ciotola di portata. Mescolato veloce, pasta, burro, formaggio. A formare una cremina con l’amido della pasta, il grasso del burro e la crema del formaggio. Se necessario si aggiunge un po’ dell’acqua di cottura, me se è necessario si è sbagliato qualcosa. È ammesso. Ma non fatevi vedere. E altro parmigiano a tavola. Che è bello poterlo aggiungere e sentirlo sulla lingua.
Questa è la base. È buonissima così. Ma è anche bello contaminarne la purezza. Ci si può aggiungere: Acciughe, per i palati che amano i gusti saporiti e hanno nostalgia del mare. Olio extra vergine di oliva, per chi non è capace di stare senza la cucina mediterranea. Tartufo, per chi si vuole viziare. Prezzemolo tritato, per chi senza un sapore fresco e aromatico non si siede nemmeno a tavola. Pepe nero macinato. Ma anche bianco. Perché gli aromi ed i profumi non sono mai abbastanza. Un’amica di Facebook mi racconta che la sua mamma ci metteva una punta di estratto di carne Liebig, per dire.
E chi più ne ha più ne metta, quindi.