Amici nel tempo: la serie. S01E01

Premessa

Anni fa, quando avevo un blog ed i blog andavano alla grande, prima di Facebooke e di tutti gli altri cosiddetti social, scrissi una serie di una decina di post riguardanti il racconto e la descrizione delle mie amicizie a partire dall’infanzia.

Ora, rileggendo quelle righe, le trovo ancora belle, per me e, credo, anche per chi le leggerà. Certo, sono racconti molto personali, che, forse, interesseranno poco chi non mi conosce (e forse poco anche chi mi conosce). Ma ho la presunzione che possano essere comunque di piacevole lettura.

Comincio quindi oggi a riproporre i testi scritti più o meno intorno al 2004, come fosse una serie TV. I testi sono riproposti così come li ho scritti. Sono solo intervenuto là dove vi erano riferimenti temporali (“tot anni fa”, ad esempio) aggiornandoli, o smussando qua e là qualche giudizio sulle persone (i blog, all’epoca, erano anonimi, oggi questo, non lo è).

Sigla.

Amici nel tempo. Stagione 1 – Episodio 1

Stavo cenando e, chissà perché, forse sto invecchiando, mi è venuto da pensare alle amicizie. A tutte le amicizie vissute, passate e presenti. E mi si sono affollate alla mente un sacco di persone. Anche diversissime tra loro, dandomi il segno di quanto io stesso, nel corso degli anni sia cambiato. Con alcune di loro, onestamente, oggi, non saprei davvero che dire.

La prima persona che mi è venuta in mente andando indietro con la memoria a circa 50 anni fa (brivido) è A. (celo i nomi, va’, che la città e piccola e la rete e grande). Una bambina, sì, forse una delle prime persone che conobbi quando i miei si trasferirono a Gorizia. E’ stata la bambina con cui ho giocato al dottore e l’ammalato, un classico, insomma, la scoperta dell’altro sesso. Dici poco. Sarà per quello che me la ricordo così bene. No, non è solo per questo. Anche perché ci siamo ritrovati poi, da adulti, a lavorare insieme su di un progetto. Che buffa cosa. Alcuni amici, con la titpica eleganza maschile, mi dicevano che era un po’ troia. Mah, io, da piccolo, non lo ricordo. Forse non ci ho fatto caso.

Negli stessi anni c’era un altro bambino, L., figlio di un collega di mio padre. Ma me lo ricordo meno. Forse perché non abbiamo mai giocato al dottore e l’ammalato, chissà.

Poi vennero le elementari. Primo amico del cuore: G. Sei anni di amicizia forsennata. Sempre insieme. Giocare, fare i compiti, insomma le cose che si fanno da bambini (niente dottore e ammalato nemmeno lì, ma mi sa che non ci ho più giocato fino verso i diciott’anni). Amicizia rotta per una stupidaggine durante il primo anno di scuole medie (lo dico per i più giovincelli: ai miei tempi la scuola media era a classi separate, maschi da una parte, femmine dall’altra. Una tempesta ormonale da non credere).

Un giorno lui entra in classe, passa dietro il mio banco e mi da un calcio nella schiena (a pensarci bene mi sa che erano proprio gli ormoni, se non non si spiega). Io ci rimasi malissimo e mi fece anche un po’ male, a dire il vero. Mi girai e gli dissi: figlio di puttana. Ammetto, un po’ esagerato, ma la tempesta ormonale non era mia una sua esclusiva, no? Bene, da quel momento non mi ha più voluto vedere o parlare. Chiuso, finito, kaputt. Confesso che ci rimasi malissimo e ci soffrii molto per un sacco di tempo, finché, una sera, dopo circa quattro o cinque anni, ci siamo trovati ad una Festa dell’Unità, un po’ brilli, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che ci eravamo rotti i coglioni di ‘sta pantomima. Ma ormai il tempo era passato, non eravamo più gli stessi, eravamo ormai lontani.

Altro grande amico delle elementari fu M., con il quale giocavo a ping-pong nella veranda della sua grande casa con giardino, che a me, che abitavo in un condominio, pareva una cosa da ricchi (sia il ping pong, che la casa con giardino. A volte mi fermavo lì a dormire (non nel giardino, però). Anni dopo lui si trasferì a Vitpiteno. Una volta lo andai a trovare lì, e sentimmo i Pink Floyd sul suo impianto stereo: Wish You Were Here, il 33 giri, uscito da poco. E tutto sembrava fantastico.

Negli anni delle medie ci fu un altro G., il tipico amico più alto, più disinvolto, ala sinistra della squadra giovanile. Insomma l’amico che un po’ invidi, un po’ ami e un po’ odi. Con lui si andava a fumare di nascosto in uno sterrato residuale di una zona di cantieri (oggi interamente costruita, ovviamente) piena di montarozzi dove si andava anche a fare cross con la bici. Il luogo si chiamava Campetto di Robin. Non ho mai saputo il perché, ma aveva qualcosa di esotico e avventuroso, quel nome. Un po’ come I ragazzi della via Pal. Si andava lì al pomeriggio, dopo pranzo, e ci si fumava un pacchetto di sigarette, una dietro l’altra, come dei matti. E si parlava, parlava, parlava. Ricordo che una volta demmo fuoco a delle foglie secche e il fuoco si propagò in un attimo, estendendosi alle fronde dell’albero di amoli (sorta di prugnette rotonde selvatiche, non ho idea di quale sia il nome italiano) sopra di noi, alle stoppie intorno. Insomma, un vero disastro. Riuscimmo a domare le fiamme con una vecchia carrozzina sfasciata che aveva, per fortuna, ancora un po’ di stoffa attorno. Lui fu il primo della compagnia a scopare, ovviamente qualche anno dopo. Ma anche il primo a mettere incinta la sua fidanzata. Quando si dice essere precoci. Oggi ha un negozio di articoli per bar e ristoranti.

Poi passai alle scuole superiori. E quegli anni sono conditi fondamentalmente da due persone: M. e P.

(continua)