Continuo a pubblicare vecchie cose, ma ne arriveranno anche di nuove, promesso. Per ora è un po’ come quando si riordina l’armadio prima di cominciare a comprare nuovi vestiti. Bisogna fare spazio.
Questo è un racconto che è stato pubblicato nel 2003 in un libro in cui sono raccolti i 20 finalisti del 3° concorso letterario di Terre di mezzo, selezionati da una giuria composta da Alessandro Baricco, Aldo Nove, Giulio Mozzi e Gabriella D’Ina. Il tema del concorso era il cibo, allora agli esordi come tema di massa e non ancora così di moda.
Seppi del concorso dal mio caro amico Francesco Locane, che venne a trovarmi qui a Roma e mi chiese di poter inviare via email il suo, di racconto. La scadenza del concorso era il giorno successivo. Mi ingolosii e volli partecipare anch’io.
Nel corso della notte e della mattina del giorno dopo recuperai alcune cose che avevo già scritto, le montai, le completai con nuovi brani e storie e diedi struttura ad uno strano racconto a due voci, che inviai, insieme a quello di Francesco, entro la scadenza del concorso. Venimmo selezionati entrambi ed entrambi pubblicati. Questo che segue era il mio.
Doppio gioco
Eccoci, mio adorato. Siamo qui. Finalmente. Pronti a preparare e consumare le delizie dei nostri sensi con corpo, mani, occhi, labbra, lingua. Pronti a mescolare i nostri cuori voraci in un abbraccio carnale. Siamo pronti, ma sappiamo attendere. Abbiamo la natura davanti, in tutta la sua forza, la sua perfezione. L’istinto ci guida, ci accarezza, ci sospinge. Sappiamo attendere che tutto sia pronto, che il calore sia quello giusto, che l’armonia sia perfetta. Anche i preliminari hanno un loro senso, in fondo. Mani che si muovono, labbra che assaggiano, contatti leggeri, gesti ed occhi attenti: pazienza e dedizione, ascolto e rispetto.
Ogni cosa è al suo posto. Sono pronto a incominciare. Guardami. Osserva le mie mani che curano giovani fiori di zucca ancora socchiusi. Osserva la morbida ricotta profumata di latte e ricordi di pascoli. Tra le mie dita foglioline di menta, fresca e frizzante, come piccoli baci dietro l’orecchio. Le mani sapienti spezzano e tritano finemente l’aroma di campo, che va a sposarsi con la compostezza della ricotta. Un filo d’olio dorato, piccole nuvole speziate di pepe. Una crema profumata e aromatica, pronta. Osserva le dita che schiudono la preziosa intimità dei fiori, forzando dolcemente il loro pudore. Ne scoprono la fiamma viva e arancione, il cuore intimo e protetto. E come in carezze profonde scivolano dentro l’uscio dischiuso riempiendone la voracità di crema lattea, che sgorga, alla fine, appagata. I fiori giacciono ora vicini, come amanti soddisfatti. Pronti per essere ammorbiditi dal vapore che distende le fibre e addolcisce gli spigoli. Arabeschi d’olio fine disegnano la loro perfezione profumata. E un paterno coperchio custodisce il calore ed il profumo. Siediti, ora, sei bella.
Sono fuggita, di corsa, giunta a te. Ed ora ti guardo. Sogno. Anticipo. Vedo la linea tesa del fianco, là dove l’anca si disegna arcuata. E le tue mani. Vedo le dita scorrere leggere sulle mie labbra, che non ti regalano ancora la resa. Sorridi. Curi le piccole forme del volto come null’altro avesse valore. Le tue mani sono il mio specchio, e chiudo gli occhi per vedermi meglio. Annuso il calore di pelle del palmo sul viso, un po’ verso destra, sentendone quasi il sapore. Respiro, dischiudo le gambe, che tremano appena, ma è solo un fruscìo, una fata morgana sulla pelle, accesa dal calore delle coltri. E dentro, sotto, attraverso, i miei piccoli geni dei sensi concentrano simmetrici pensieri infuocati sul petto, disegnano brividi lungo la schiena, operosi soffiano sul ritmo del respiro, e lo spezzano.
Ti porgo un Martini cristallino, conico e perfetto. Bevi. Beviamo.
Una piccola cipolla rossa, lucida, da sfogliare, da svestire, da domare. Le mani lavorano veloci. Il ritmo del coltello, che affina ed affetta, ticchetta sul tagliere e insegue la finezza. Piccole lune rosate si depositano l’una accanto all’altra, disegnando fessure incrociate. Piccoli pomodori, lisci, profumati di sole, perdono l’unità divisi in due, come metà un tempo insieme, che si ritroveranno solo tra le labbra di chi saprà aspettare. Due lucide zucchine, tese, protese, virilmente carnose. Le mie mani sanno scorrere e tagliare, rendere grazia alla forma, che ora giace in una cascata di piccole lune umide ed innocue, che attendono il destino. Campionario di lune e lunette, mezze sfere e semianelli. Riposano ora sul fondo accogliente di una padella, che comincia a scaldare la sua anima. Un calore dolce, lento, garbato, come quando, d’inverno, un abbraccio scalda la pelle sotto le coperte. E il profumo d’oliva dell’olio condisce l’abbraccio. Coperto si ammorbidisce lentamente, e si amalgama, l’amplesso dei sapori e dei profumi. E ancora, alla fine, aromi speziati: erbe fresche, timo, basilico spezzato con le dita, che lama non sia. E menta. Piccole linguine di farro attendono il loro bagno di vita bollente.
Sono stesa sul letto, spogliata dagli strati più esterni, portata alla luce. Lacrime interne sciolgono il flusso del sangue, che affluisce verso i miei centri di gravità. Un calore diffuso e leggero, a volte, ma, ascoltando bene, una rete di piccoli fuochi, alcuni segreti. Tendo la pelle, la schiena, alzando le braccia, quasi a rendere visibile la rete dei sentieri incrociati della mia geografia. Lungo cui cammini, o passeggi, godendo il piacere del viaggio senza meta, che se raggiungi, per incanto, scompare. Mie nuvole bagnate si posano sulle tue labbra, sulla punta della tua lingua, soavemente femmina. Mi aderisci ora, posandoti come una foglia profumata.
Ti annuso. Hai un odore pentagonale, dispari, complesso. Una dolcezza spigolosa, come una treccia di stecche di vaniglia e cannella. Un odore climatico e differenziato, come le stagioni. Caldo primavera nell’incavo del collo, brezza di sole sulla spalla, notte tropicale di foglie bagnate nelle pieghe dell’ascella. Calda e asciutta estate di pesca sul petto, sera autunnale di fuoco e di legna sui fianchi e le braccia, che sanno stringermi. Nocciole immature le gambe vicino e dietro il ginocchio, verdura leggera la pelle accostata al polpaccio. E ancora striature di crema estiva e cubana sulla coscia mostrata, e velluto invernale castagno nel solco privato tra sferici cieli di morbida nebbia. E tempesta equatoriale, rampanti marosi, odori svegliati dal pulsare del sangue, profondo e sfrontato, odore di perle, di lucido mare.
E’ quasi pronto. Dici che anche tu sei brava in cucina. Sorrido.
Non so se mi piace di più l’idea di cucinare per te, ora, o pensare di vederti cucinare. Forse le due cose insieme. Uno spazio ristretto, una gara silenziosa, sorrisi e parole, una reciproca dolce esibizione simbolica di altre abilità. Vedrei le tue mani, che ora riposano fumando, tagliare la carne esperte e decise, affettare veloci verdure, aprire le foglie socchiuse. Vedremmo le labbra assaggiare, prudenti, aromi bollenti e ancora imperfetti e di nuovo le mani venire in soccorso, mescendo, speziando, con tocchi leggeri. Attendendo soave il momento del gusto finale più pieno, il momento del vero sapore di ciò che natura non è, ma creazione.
Vedo i tuoi occhi. Occhi di sfida e possesso. Dolore, fitte brucianti di denti irriverenti. Lo sento, tra le labbra, chiarificato e limpido, come burro che si fonde, il vuoto che desidero pieno. A piccoli assaggi dividi con me la mia lucida vita. Ne sento l’aroma, selvatico e forte, che assaporo, labbra su labbra. Ti artiglio, squamandoti i fianchi. Un gemito, un soffio, un vapore bollente e sincero, e scivoli e riempi. Protetto si gonfia orgoglioso, lievita, rampante e accudito. Ed affonda, fuoco vivo e selvaggio, scontro di forze profonde, sapori. Lo sento il calore, dal ventre, nel corpo che vola, infilato. Arriva lontana l’ondata, dal collo alla schiena, coperta straripa, prepara la morte di un attimo. Sciolti, emulsionati, traboccano i flussi, un fulmine che spegne la fiamma, scintille impazzite. Le labbra accolgono e scambiano il frutto ed il dolce, e la bocca, complice, sorride.
***
Sono alla fine. Sazi di sensi e parole.
Lei si alza dal letto, entra in bagno, si lava, si pettina, si rifà il trucco. Cancella da sé quel pezzo di vita. La luce dello specchio racconta gli occhi lucenti. Ma deve andare. Si veste. Lui ancora steso, con il lenzuolo che lo copre solo in parte. Una piccola luce sul comodino. Accesa. Si alza. Come statua di carne l’accompagna, la bacia, scoperto e vulnerabile. Lei esce, guida le strade notturne, verso casa.
Appagati sorseggiano un dorato vino Muffato, che ricama ricordi d’arancio in una soffice mousse al cioccolato. Lui guarda l’ora. È ora. Lei si alza da tavola, si mette il soprabito, prende la borsa, parla. Lui la segue, dapprima con lo sguardo, poi ne segue i passi, lungo il lungo corridoio che porta alla porta. Sulla tavola rimangono, come in un letto sfatto, bicchieri vuoti, piatti, briciole di pane. Aleggia ancora, su quella tovaglia, il suono del piacere, la risacca della saliva. Permane l’eco dei morsi, del suggere avido e umido. La candela è ancora accesa. Tremule ombre sul muro si concedono gli ultimi istanti. Si salutano sulla soglia, un bacio, dolcemente sorridendo. Lui rientra, riassetta, soffia sulla piccola fiamma, comincia a mettere ordine, non ha molto tempo.
È arrivata. Apre la porta di casa, scommettendo con se stessa, come sempre, se il primo spiraglio, aprendo, sarà un sottile taglio di luce o una soffice oscurità. Luce. Presenza. È già rientrato, pensa. Entra, posa la borsa, prepara il sorriso, percorre il corridoio, annusando. Un odore strano, inconsueto. Come di candela appena spenta. Con un lontano ricordo di menta, facendo attenzione.
Il libro è fuori catalogo e non è più disponibile, a quanto risulta qui. Comunque era questo: AA.VV., A fuoco lento. Il gusto di raccontare, Terre di mezzo Editore, 2003