Pianificazione sentimentale

Correva l’anno…

Era il luglio 2003, quindici anni fa, ormai. Solo da qualche anno avevo lasciato Milano per Roma, ed il mio lavoro di urbanista per quello di consulente per una società di ingegneria. Era un peirodo in cui scrivevo volentieri, come spesso quando si cambia vita.

Questo è un racconto che ho inviato anche ad un concorso, purtroppo senza successo. Ma a me piace, forse perchè c’è molto di me e della mia vita milanese, sia pure trasposta in parte nella vita immaginaria di un personaggio femminile.

Buona lettura.

Pianificazione sentimentale

– Per quanto riguarda la consegna del definitivo penso che per la fine di questo mese dovremmo farcela – disse convinto – anche tenendo conto di tutte le modifiche ed integrazioni discusse questa sera – aggiunse, rassicurando così Sindaco e Assessori. Marcello guardò l’ora senza dare nell’occhio. Gli sembrava inelegante dare segni di impazienza, anche se, come vide, erano quasi le due. Le Giunte, in quel diavolo di città, finivano sempre tardissimo. Soprattutto quando l’oggetto del contendere era il Piano Regolatore. Era stanco e svuotato, come ogni volta dopo avere attraversato la calda densità di una forte tensione nervosa ed emotiva ed esserne uscito indenne, e in fondo vincente.

– Bene – disse il Sindaco – credo si possa togliere la seduta. Un certo sollievo aleggiò palpabile intorno al lungo tavolo. Marcello stava già staccando le tavole appese sui pannelli predisposti per la presentazione, aiutato, in questo, da Adriana, una giovane, volenterosa e promettente collaboratrice, che lo supportava da qualche tempo e lo seguiva sempre in occasione di presentazioni, incontri e riunioni. Per questa ragione si erano trovati spesso, nelle ultime settimane, a partire insieme verso sera ed a rientrare nottetempo, senza cena, con una giornata di lavoro alle spalle, stanchi, guidando nella nebbia, come quella notte, silenziosi e già proiettati nelle rispettive case.

Chissà se Marco è ancora sveglio, pensava Adriana guardando la pallida e intermittente linea di mezzeria dell’autostrada inghiottita, qualche metro avanti a loro, dalla coltre ovattata della nebbia padana. Se ha cenato, cosa ha fatto, se il malumore che aveva colto nella sua voce quando si erano sentiti, verso le sei, si era stemperato o ancora occupava la sua mente. Marco faceva l’insegnante di lettere in un liceo scientifico, o per meglio dire, cercava di diventarlo. Suppliva, per il momento. Adriana, invece, dopo la laurea in architettura era andata a lavorare in uno dei più grandi ed importanti studi professionali d’Italia, del quale Marcello, l’urbanista, era uno dei soci. Guadagnava pochissimo e lavorava moltissimo, spesso anche la notte, o durante i fine settimana. Marco, questo, non lo capiva.

– Ma possibile che un giorno sì e uno no devi lavorare fino a tardi? Ma ti rendi conto che ti stanno sfruttando? Ma che razza di lavoro è, quello? – le aveva detto al telefono.

– Devo andare, è una Giunta importante, questa sera, non posso mancare. Dobbiamo presentare la bozza del Piano e Marcello ha bisogno di me, il lavoro l’ho seguito io – gli aveva risposto.

– Fai quello che credi. Pensa che ogni tanto anch’io posso avere bisogno di te – aveva concluso Marco con tono seccato. Adriana aveva sospirato, incapace di replicare, l’aveva salutato con colpevole dolcezza ed era corsa a raccogliere carte, disegni e relazioni, pronta per partire. Le dispiaceva, ma in cuor suo, ascoltandosi per bene, sapeva di essere nel giusto.

Le mani di Marcello stringevano il volante ed il suo sguardo era concentrato nello sforzo di perforare l’umido muro bianco entro cui stavano viaggiando.

– Sei stanca? – le chiese senza distogliere gli occhi dalla strada. – Un po’ – ammise Adriana – ma più che altro ho fame. Con la tirata che abbiamo fatto oggi non sono nemmeno riuscita a mangiare un panino. – Se vuoi quando arriviamo possiamo andare a mangiare qualcosa in un posto che conosco dove un panino ce lo fanno anche a quest’ora – propose Marcello a titolo di parziale indennizzo per il digiuno professionale che le aveva fatto patire.

Anche lui, a casa, aveva chi lo stava aspettando, in verità. Ma aveva bisogno di stemperare la tensione, di lasciarsi scivolare la giornata addosso definitivamente, di pettinare i nervi annodati. Anche se Adriana avesse rifiutato l’invito sarebbe comunque andato a bere o mangiare qualcosa prima di rientrare. Tanto per vedere facce normali di gente normale, che, finito il lavoro, aveva avuto il tempo di andare a casa a farsi una doccia, cenare, poi uscire, andare al cinema, andarsi a bere qualcosa.

Adriana allungò lo sguardo verso l’orologio sul cruscotto: 02:37. – Ma sì, va – rispose  decisa – basta che non si faccia troppo tardi.

Lucia aprì un occhio. Le era sembrato di sentire un rumore, in casa, e si era svegliata. I fosfori blu della radiosveglia dicevano che erano le due e quaranta. – Marcello? – chiamò – sei tu? – ma non ottenne alcuna risposta. Evidentemente era stato un rumore nell’appartamento vicino, o in quello di sopra. Comunque non era Marcello. Era preoccupata. La nebbia, quella sera, era davvero intensa. Non era ansiosa, in genere, e cercava di non fare la parte della mamma apprensiva. Ma la nebbia la spaventava. Forse perché lei veniva dal Sud e non era abituata. O forse perché la nebbia nascondeva le cose alla vista e questo la inquietava, quasi che non poterle vedere corrispondesse ad averle perse per sempre.

Anche a lei capitava spesso di lavorare in orari e giorni normalmente dedicati al riposo. Lavorava in ospedale, nel reparto neurologia, come aiuto. Spesso era di turno la notte, o nei festivi, altre volte era reperibile, e poteva essere chiamata per un emergenza a qualunque ora. Capiva Marcello, quindi, la sua dedizione, il suo impegno, anche se, date le condizioni, si vedevano poco, alla fine. Ora, con la gravidanza ed il parto imminente, era in congedo e Marcello le mancava di più, lo ammetteva.

Si alzò, andò in bagno, fece pipì, guardò fuori dalla finestra. La nebbia si stava diradando un po’, almeno in città. Tornò a letto, e raggomitolandosi sotto al piumino in posizione semifetale, si riaddormentò.

Marcello trovò parcheggio con qualche difficoltà, nonostante l’ora. Era una zona piena di locali, quella, la zona notturna della Grande Metropoli. Riuscì a parcheggiare lungo la mezzeria della strada, usanza bislacca, per la verità, ma a suo modo efficiente. Ormai non aveva nemmeno più fame. Aveva solo voglia di bere qualcosa di fresco, di forte, di armonioso. Entrarono al Novecento, piccolo grande bar, teatro di tante felici ubriacature, di un pirotecnico ultimo dell’anno con la neve, di molti festosi aperitivi. Non si sedettero nemmeno. La musica era alta, si faceva fatica a parlare, ma andava bene così, era come un antidoto alla polvere delle troppe parole di quella sera, quella violenta immersione nella caciara.

– Vivi sola? – le chiese. Non avevano mai parlato di sé, da quando avevano cominciato a lavorare insieme. Adriana aveva gli occhi stanchi. Una ragazza intelligente con tanti capelli ricci, lunghi, ramati, selvatici, e grandi occhi verdi, o forse grigi, o forse… Anche lui era stanco, gli occhi gli bruciavano per lo sforzo della guida, e le ambigue luci colorate del bar non aiutavano di certo un’accurata esplorazione oculare.

– No, vivo con il mio ragazzo. Spero che a quest’ora stia dormendo – disse con un sorriso indicando l’orologio alla parete – sai, non è felicissimo della vita che faccio, ci vediamo poco, lui insegna e ha molto più tempo libero di me, e gli sembra sempre che io stia facendo un lavoro assurdo. Ma a me piace, è quello che voglio fare da grande – aggiunse enfatizzando la parola e mettendosi in punta di piedi – ma non lo capisce. Non so se sia egoismo o cosa. Certo mi aiuterebbe di più sentirlo dalla mia parte – concluse addentando vorace un panino pieno di verdure grigliate, che per dimensione sembrava quasi una pizza.

Marcello finì con un ultimo abbondante sorso il suo Jack&Cola, servito in un grande calice di quelli comunemente utilizzati per la birra media. Erano dei deliziosi criminali, in quel bar, nel dosaggio degli alcolici. Vuoi per il dolce effetto dell’alcol, vuoi per la tensione calante, Adriana gli fece tenerezza.

– Beh, certo, lo capisco. È già faticoso di per sé, fare questa vita, se poi le persone che ci stanno vicino non collaborano diventa davvero difficile. Hai lavorato bene, in queste settimane. Ancora uno sforzo e poi vedrai che per un po’ saremo più tranquilli. Magari vi andate a fare qualche giorno da qualche parte insieme e tutto si risolve.

Anche lui, in tempi più remoti, ai tempi del suo apprendistato, aveva vissuto situazioni analoghe. Rivendicazioni d’amore, le chiamava allora. Menate, era più cinicamente orientato a riconoscere ora. E certo non era solo per questo, ma anche per questo, che il suo matrimonio aveva avuto fine.

Guardava Adriana e pensava al suo ragazzo, a casa, così fuori da quel mondo, passeggero di un altro treno, con altra destinazione finale. Le aveva risposto in modo ipocrita, se ne rendeva conto, ma alle tre del mattino non se la sentiva di dirle la verità. E ad Adriana, di quei pensieri, non disse nulla.

Le settimane successive passarono in fretta. Almeno per Adriana e Marcello. Furono settimane piene, intense. Lunghe giornate e nottate in studio a predisporre le modifiche al Piano, a rifare i conteggi delle quantità insediative, ad aggiornare l’azzonamento, a modificare per l’ennesima volta progetti ed assetti urbani. Di tanto in tanto una riunione di verifica dei dettagli con il più pignolo Assessore all’urbanistica che Marcello avesse mai conosciuto, riunioni che Adriana era ormai in grado di condurre da sola. Era proprio brava. Stava crescendo in fretta.

Il Piano era già passato al vaglio della Commissione Urbanistica e si attendeva solo la definizione della data di convocazione del Consiglio Comunale. Ormai il più era fatto. Bastava attendere.

– Mercoledì, dalle sei e mezza in poi – disse serio Marcello posando il telefono.

– Mercoledì questo che viene? Il 25? – chiese Adriana in un sussurro.

– Sì, da mercoledì, a seguire – confermò Marcello – fino all’approvazione. L’Assessore dice che se va tutto bene entro la nottata di venerdì chiudiamo. Vedrai che ci divertiamo – buttò lì sforzando un sorriso ed un’aria vagamente cameratesca. Adriana ebbe un brivido. Non visibile, non fisico, ma dentro di lei qualcosa tremò. Venerdì era il compleanno di Marco.

Si avvicinava il giorno, Lucia lo sentiva. Le contrazioni si erano fatte più dolorose ed evidenti nel corso delle due ultime settimane. Negli ultimi tre o quattro giorni sentiva di tanto in tanto il ventre indurirsi, come in una contrazione muscolare. Cercava di rilassarsi, di restare stesa, di tenersi in ascolto. Mancava poco, comunque.

Marcello era rimasto con lei fino a mercoledì pomeriggio, poi era dovuto andare. Approvavano il suo Piano. Erano rimasti d’accordo che si sarebbero sentiti ogni paio d’ore, per raccontarsi vicendevolmente come stavano andando le cose. Il Piano da una parte e il loro bambino dall’altra. Ma era più che altro un modo per restare e sentirsi vicini. Era tornato tardissimo sia mercoledì notte che giovedì notte, restando al suo fianco fino a metà pomeriggio del giorno successivo. Poi era tornato in Consiglio. Ora con Lucia c’era Franca, sua sorella.

Adriana, invece, passava l’intera giornata negli uffici tecnici del Comune, controllando che tutto procedesse bene, riferendo al telefono di tanto in tanto a Marcello i contenuti di qualche emendamento proposto dall’opposizione e trasmettendo poi il suo parere all’Assessore. La sera, nella sala consiliare, assisteva al dibattito, passava a Marcello i dati e le informazioni perché potesse fornire risposte e pareri tecnici immediati alle richieste di chiarimento avanzate dai consiglieri.

Marco, come era prevedibile, non l’aveva presa bene per niente. Come in una laica, e a dire il vero un po’ greve litania, aveva dato fondo a tutto il suo repertorio di invettive, che Adriana conosceva fin troppo bene. Adriana era davvero angosciata. A poco erano valse le rassicurazioni sul fatto che avrebbero passato un fine settimana meraviglioso, che l’avrebbe coccolato, che gli aveva già comprato il regalo più bello del mondo. Incazzato era e incazzato rimaneva. Non ebbe nemmeno il coraggio di proporgli di raggiungerla, venerdì sera, per tornare insieme, dopo. Anche se le sarebbe piaciuto che lui l’avesse vista, seduta sul banco della Giunta, concentrata, professionale, importante. Chissà, vedendola forse avrebbe capito, pensava. Ma non ne era sicura, e quindi non glielo chiese.

Marcello era distratto, l’ultima sera di Consiglio, faticava a seguire la coda del dibattito, le dichiarazioni di voto, i commenti dell’Assessore che gli sedeva a fianco, e quelli di Adriana, sull’altro lato.

Aveva parlato con Lucia un’ora prima, durante un breve intervallo dei lavori. Le contrazioni si stavano intensificando, gli aveva detto, circa una ogni ora. Avrebbe voluto fuggire, correre da lei, starle vicino, ma era inchiodato lì, almeno ancora per un paio d’ore, ne era certo. Guardava Adriana, di tanto in tanto, con la coda dell’occhio. Sembrava preoccupata, ansiosa. Avrebbe voluto dirle qualcosa. Una cosa tipo “dai, ormai è fatta, il tuo primo PRG”, ma gli sembrò banale, e non disse nulla. Il tempo passava, lento e noioso.

Il cellulare nella tasca della camicia cominciò a vibrare. “Casa”, stava lampeggiando sul display. Si alzò scusandosi e rispose, uscendo dall’aula.

–   Ciao Marcello sono Franca qui mi sa che ci siamo le contrazioni sono proprio frequenti adesso una cosa tipo una ogni dieci minuti non so io la porto in ospedale. Tu come sei messo, ce la fai a venire subito? – disse la sorella di Lucia tutto di un fiato.

– Passami Lucia, ce la fa a parlare?

– Sì, mi fa cenno di sì, aspetta, te la passo.

– Amore mio qui ho quasi finito – le disse Marcello – manca davvero poco, questione di un quarto d’ora. Poi corro da te. Aspettami, digli di aspettare – disse cercando di nascondere in una battuta l’agitazione ed il senso di colpa.

– Vieni presto, ti prego, ho bisogno di te… qui, vicino… Franca mi porta lei in ospedale… là sono già pronti, mi aspettano… ma tu vieni prima che puoi, eh? – disse Lucia non senza un certo sforzo e fermandosi ogni tanto a riprendere fiato.

– Volo, giuro, al massimo tra un’ora sono lì. Resisti stellina, resisti.

Quella notte, per fortuna, l’aria era limpida, non c’era nebbia. Marcello guidava veloce, filando lungo il nastro buio d’asfalto come un falco e come un falco aveva occhi solo per  la strada. Il Piano era stato approvato. Adriana era al suo fianco, come tante altre volte, altre notti, e se ne stava accoccolata sul sedile, silenziosa. Non aveva la forza di chiamare Marco. Non sapeva nemmeno dov’era, con chi avesse passato la serata. Si erano sentiti prima che cominciasse il Consiglio, verso le sei. Lui non sapeva cosa avrebbe fatto, disse un po’ freddo, qualcosa si sarebbe inventato. Con Marcello era d’accordo che avrebbe preso un taxi dall’ospedale per tornare a casa.

Arrivarono volando. Scesero dalla macchina, Marcello la salutò in fretta, scusandosi, ma…

– Non scusarti, figurati, capisco benissimo. Io prendo un taxi, qui fuori, e me ne torno a casa. Tanti auguri a tutti e due, davvero – disse Adriana salutando con la mano.

– Grazie, grazie tante di tutto – urlò Marcello ormai di corsa – sei stata bravissima. E mi raccomando – aggiunse ancora girandosi – non farti vedere in studio prima di una settimana, altrimenti ti licenzio. E goditi il tuo ragazzo. Promesso? Adriana fece di sì con il capo, cercando di sorridere, e si avviò lentamente verso la fila di taxi in attesa.

– Al bar Novecento – disse al tassista, quasi senza pensare. Cercò nella borsa il suo piccolo specchio, si guardò. Il buio del taxi levigava la stanchezza. Si trovò bella. Si sistemò i capelli, diede una rinfrescata al trucco, rifinì l’orlo del rossetto. Una soffice sensazione di autonoma eccitazione cominciò a pervaderla. Soffice come il sedile in cui si lasciò sprofondare, quasi sorridente.