
Una storia
Buongiorno, sono Luigi Canella, attendente del Generale Giulio Douhet, l’uomo che ha inventato il milite ignoto. Sì, proprio quello che c’è al Vittoriale, a Piazza Venezia. É stato una decina di anni fa, lo ricordo bene, nell’agosto del 1920. La Grande Guerra era finita da poco benché avessimo vinto il conflitto, eravamo ancora tutti sotto choc e sanguinanti per le immani perdite subite.
A onor del vero il Generale non era stato il primo a pensarci. L’idea venne prima agli inglesi e, più o meno in contemporanea, ai francesi.
Il concetto era semplice: rendere onore a tutti caduti sui campi di battaglia. Ma soprattutto ai dispersi, quelli a i cui congiunti, le madri, le mogli, i figli, non avevano più avuto modo di rendere omaggio.
Ma dove si recupera la salma del milite ignoto? Dove si trova?
Ogni paese ha costruito un suo percorso. Tutti hanno recuperato i resti di alcuni corpi ancora sepolti nei principali e più cruenti campi di battaglia, nei cimiteri di guerra: gli inglesi ne hanno recuperati 4, i francesi 8 e gli italiani ben 11.
Che non è mica una cosa semplice, eh? Che molti dei caduti sul campo venivano seppelliti sul posto. Lo stesso posto che, magari, dopo, veniva ulteriormente martellato dai bombardamenti. E questi recuperi vennero fatti tre o addirittura quattro anni dopo le sepolture. Il rischio era quello di mescolare i resti: quelli dei propri soldati con quelli dei soldati nemici, ad esempio. Se devi individuare il TUO milite ignoto non è mica una bella cosa, no?
Ma poi, mettiamo che ci riesci, una volta che si sono recuperati i corpi, come si fa a scegliere proprio quello che diventerà il milite ignoto, quello vero? A caso? Tanto valeva prenderne uno solo, allora.
É un bel problema.
Gli inglesi, pragmatici, affidano la scelta al Generale Wyatt, comandante delle truppe inglesi in Francia e nelle Fiandre. Il generale entra da solo nella cappella di St.Pol, dove sono raccolte le quattro bare coperte dalla Union Jack, e fa la sua scelta. Fine. Semplice e indolore. Oggi “The Unknown Warrior” riposa nella Abbazia di Westminster a Londra.
I francesi hanno avuto più fantasia, bisogna dirlo: questa volta durante una cerimonia pubblica, Auguste Thin, un giovane soldato del 132° reggimento che aveva perso il padre sui campi di battaglia, viene chiamato a scegliere la bara tra le sei presenti nei sotterranei di Verdun, allestiti come camera ardente per l’occasione. Auguste gira una prima volta attorno ai feretri, rapidamente. Poi al secondo giro si ferma sulla sesta bara e vi depone il bouquet di garofani bianchi e rossi che gli era stato consegnato per adempiere al suo compito. Perché proprio quella e non un’altra? Più tardi Auguste spiegherà che dopo il primo giro pensò: “io appartengo al 6° corpo del 132° reggimento; sommando le cifre 1, 2 e 3 si ottiene 6. La mia decisione era presa”. Bizzarro, vero? C’è da dire che Auguste era la seconda scelta. La prima scelta, infatti, un giovane soldato che aveva combattuto a Verdun, viene ricoverato in ospedale per un attacco di tifo solo due giorni prima della cerimonia e, ovviamente, non può presenziare. A volte i casi della vita.
“Le soldat inconnu” giace da quel giorno sotto l’Arco di Trionfo, a Parigi.
E noi italiani? Come al solito i più creativi di tutti.
Affidarsi al caso? Nemmeno per sogno. Far decidere ad un soldato con la passione per i numeri? Ma non scherziamo.
Qui ci vuole una storia forte, si sono detti gli alti comandi, una storia di fronte alla quale nessuno possa avere da ridire.
E fu coì che nacque l’idea della “madre spirituale” di tutti i soldati caduti sconosciuti.
“Sembra una buona pensata”, si saranno detti tutti soddisfatti i membri della commissione appositamente costituita. E quindi via alla caccia della madre ideale. Le principali candidate furono l’udinese Anna Visentini, che aveva perso entrambi i figli: il primo, medaglia d’Oro al Valor militare, il secondo, disperso.
Ma in ottima posizione c’erano anche una popolana indigente che da Livorno andò a piedi a Udine pur di raggiungere la salma del figlio perduto; un’altra mamma che ebbe la forza d’animo di assistere a più di 150 esumazioni pur di trovare i resti del figlio, e che, nonostante tale tenacia, non riuscì comunque a identificare; e, per finire, una madre di Lavarone per poter deporre i resti del figlio nel cimitero del paese, accanto a quelli del marito, riesumò da sola le sue ossa, ponendosele in grembo dopo averle legate con un nastro tricolore.
C’era l’imbarazzo della scelta.
Ma alla fine la ebbe vinta Maria Bergamas, madre di Antonio detto Toti, suo unico figlio, triestino, che arruolato nell’esercito austriaco, disertò per combattere sotto la bandiera italiana, trovando la morte in combattimento.
Agli occhi della commissione sarà sembrata una storia perfetta, altro che. Con la giusta dose di umanità, straziante, ma in modo equilibrato, ma soprattutto politicamente esemplare.
E fu così che il 28 ottobre del 1921 alle ore 11 del mattino, nella Basilica di Aquileia, le undici bare erano allineate sotto l’altare. Ricordo che già dalle prime luci dell’alba una folla immensa si era radunata negli spazi antistanti la Basilica. Alle 11 vennero aperte le porte. La basilica si riempì completamente. Autorità militari, civili e religiose, popolo, non c’era uno spazio libero. Poco dopo, sulle note della Marcia Reale, fece il suo ingresso Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’Aosta, che prese posto a fianco dell’altare accompagnato da un fragoroso applauso.
Al termine della funzione religiosa e la benedizione delle bare con l’acqua del Timavo, quattro medaglie d’oro al valor militare si recarono dalle madri di guerra ed accompagnarono Maria Bergamas davanti agli undici feretri.
Nessuno fiatava. Come se l’avessi ora davanti agli occhi: la madre, vestita di nero e con il capo coperto da un velo, si inginocchia davanti all’altare e dopo qualche istante, rialzatasi, comincia a camminare lentamente, come trascinandosi, di fronte alle bare allineate, come in trance. Tutti gli sguardi sono su di lei. Il silenzio è totale. Giunta di fronte alla penultima, sfinita, grida il nome del figlio, si accascia in ginocchio abbracciando il feretro. La scelta è fatta.
Il milite ignoto è stato identificato, se mi passate il paradosso, e prende la via di Roma, durante un viaggio in treno a passo d’uomo, che tocca le principali città d’Italia, scortato, lungo tutto il suo percorso da immense ali di folla.
Le dieci salme rimanenti vengono invece sepolte nel piccolo cimitero dietro alla stessa basilica, dove riposano ancora oggi, insieme alla salma di Maria Bergamas, protagonista, suo malgrado, della Grande Storia.
Non ditelo al generale, che capace se ne ha a male, ma ogni volta che passo da Piazza Venezia rivolgo uno sguardo verso il milite ignoto, e penso a quella povera donna, a suo figlio, ma anche a chi, chiunque egli sia, giace davvero all’interno di quel sarcofago di pietra, tutti loro vittime due volte: della guerra prima e della ideologia poi.